MAGICA IRPINIA: MONTECALVO IRPINO

A Montecalvo Irpino, giunti dinanzi al muro di cinta di via Maddalena, avviene una straordinaria magia: è possibile salire su un tappeto volante, rosso di emozioni, che, librandosi sulle ali della fantasia per 510 mq, ci trasporta lungo un viaggio straordinario tra Mito e Storia. Ad accoglierci è lo Scazzamariello, un folletto piccolo e dispettoso, con un berretto rosso, che è anche il segreto della sua magia e senza il quale si sente perduto. E, infatti, se si riesce a rubarglielo, pur di tornarne in possesso, è disposto a dare in cambio tutte le monete d’oro che gli si chiedono. E che il folletto non tira fuori dal suo cappello, bensì durante l’atto del defecare.

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L’oro delle monete si fonde e confonde con il giallo delle ginestre in cui è immersa la Pacchiana. Il termine, lungi dal riferirsi - come avviene oggi - ad un modo di essere e di vestirsi stravagante e appariscente, privo cioè di quella classe o di quel decoroso equilibrio che offende i canoni della bellezza estetica, indica, invece, un tipico abito montecalvese, sintesi della cultura più antica di questo borgo e frutto dell’abilità sartoriale delle donne di Montecalvo. Elementi particolarissimi dell’abito sono il vantesino, realizzato in panno di lana di colore verde erba, con ricami finissimi e applicazioni fantasmagoriche; il corpetto, che, oltre ad avere una chiara funzione strategica per le meno dotate, aveva anche la funzione di segnalare la condizione della donna sposata mercé la presenza di una doppia fila di bottoni di argento di forma discoide (la buttunera); la cammisola, camicia importante con pizzi agli orli di color senape e con evidenti ricami a punto croce e/o spugnetta con le iniziali della ragazza e/o delle famiglia; il copricapo, che si distingueva in tovaglia (in lino grezzo, che -come dice la parola- per la grandezza, la forma rettangolare e il tipo di tessuto, alla bisogna, poteva diventare un giaciglio, una tovaglia da cucina o un necessaire per i fanciulli), pannuccia (in lino fine per le grandi occasioni, con ricami a punto croce e frangiatura a cascata sulle spalle), maccaturo (in lana di color carne -o nero in caso di lutto- che cadeva sul laterale delle guance, ricco di frange annodate, sovrastato da ricami a bassorilievo in spugna, con motivi floreali). Completavano l’abito calzettoni di lana spessa (di colore nero, fermati a mezza coscia con nastri e reggicalze a molla), mutandoni ampi e lunghi fino al ginocchio (arricchiti di merletti -le cosiddette puntine-di varie forme, spessori e colori), scarpe in cuoio e pelle (finemente realizzate dagli abilissimi artigiani montecalvesi). Ornamenti aggiuntivi erano le còcole (collane ad elementi ovali), le sciacquaglia (orecchini tipici e vistosi) e lo spungolo (spillone), che fissava il copricapo ai capelli. Il costume da pacchiana aveva numerose varianti, dovute alla condizione della donna (bambina, giovinetta, donna promessa, donna sposata, vedova). L’abito da sposa, invece, era tutto bianco (eccetto la gonna, che rimaneva nera) e non prevedeva alcun copricapo, bensì uno scialle in seta con fronzoli e un vantesino bianco, ricco di ricami a bassorilievo con l'apposizione di perline, anche vitree, di vario colore.

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Ma il rosso tappeto magico ci allontana dai solari colori della Pacchiana e ci avvicina ad un cielo minaccioso, da cui lampi sinistri illuminano il castello feudale. Costruito sul punto più alto del borgo sì da consentire allo sguardo di abbracciare i quattro punti cardinali, dominando, da Ovest a Nord, l’intera Valle del Miscano e, da Sud a Est, la valle dell’Ufita e il massiccio del Partenio, il maniero venne edificato dai Longobardi sul sito di una precedente struttura fortificata romana creata al tempo delle guerre sannitiche. Intorno al castello sorsero le abitazioni dell’antico borgo di Corsano, abbandonato quando la terribile peste del 1656 costrinse i pochi superstiti a trovare rifugio in antichissime abitazioni rupestri - il cosiddetto rione Trappeto - che gli studiosi vogliono far risalire al Neolitico, se non addirittura al Paleolitico Superiore. Le antiche case, scavate nell'arenaria e ordinate a gradoni nel costone del monte di modo che le case di un livello inferiore tracciassero, con i loro tetti, le strade per le case del livello superiore, sono oggi immerse in un terrificante silenzio.  Il fascino arcano che da esse si leva pare abbia ispirato la celeberrima Una notte sul Monte Calvo, composta dal grande Musorgskij, che - come vuole la tradizione- sarebbe stato ospitato nel castello da Maddalena Pignatelli (i Pignatelli furono, per l’appunto, gli ultimi proprietari della fortezza). E così, inseguiti dalle note sinistre e incalzanti che rievocano il sabba delle streghe, il tappeto volante ci conduce, serpeggiando vorticosamente, tra le strette e bizzarre stradine dell’inquietante rione, ove pare che il cielo precipiti giù per i calanchi e da dove sembra, a tratti, di sentire ancora nell’aria il fruscio delle agili scope con cui le leggendarie janare, nelle tempestose notti lunari, solcavano il cielo montecalvese per raggiungere il mitico noce di Benevento. E proprio per proteggersi dai malefici delle streghe il centro storico, ricco di portali finemente lavorati e di nascosti sottopassi, dai quali improvvisi si offrono alla vista lembi di cielo e vertiginosi dirupi, fu guarnito con maschere in pietra: il leone barbarico dalla doppia pupilla o la testa di satiro che sormonta il portale del palazzo de Cillis stanno, quali vigili sentinelle, immobili contro il malocchio.

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Ma ecco che ci addentriamo in un altro luogo oscuro e sinistro: abbiamo raggiunto le Bolle della Malvizza, vulcanetti di fango attribuibili alla presenza di giacimenti profondi di idrocarburi gassosi, che, in risposta alle sollecitazioni tettoniche compressive, tipiche dell’area appenninico-adriatica, tendono a risalire verso la superficie determinando il tipico gorgogliamento delle acque sorgive entro cui si infiltrano. Si tratta di un rarissimo fenomeno di natura puramente sedimentaria (a differenza delle comuni mofete, fumarole e solfatare che hanno, invece, un'origine propriamente vulcanica), che, già nel suo toponimo, non ha nulla di rassicurante,    giacché il termine potrebbe derivare da Mala vizza (uccello del malaugurio) o da Mala silva (selva pericolosa). A riprova del timore reverenziale che il luogo suscita sta la raccapricciante leggenda dell’Oste della Malvizza. Si racconta che, in questi luoghi, in un tempo lontano, sorgesse un’osteria, il cui oste, a dispetto di quanto accadeva altrove, riusciva a servire abbondanti porzioni di carne (a quei tempi la carne era un bene pregiato) e, per di più, molto prelibate. Il segreto consisteva nell’utilizzo di particolari spezie e, soprattutto, di carne di… bambini. Che il perfido e avido oste attirava nel retro-bottega per reciderne con un coltellaccio la carotide. Fino a che Satana, stufo di una siffatta concorrenza sleale, non fece sprofondare l’oste e la sua malefica bottega in un mare di fango incandescente (anche se un’altra versione vuole che sia intervenuto un angelo inviato dal Signore). E, da allora, c’è chi giura che, tra il ribollire dei fanghi, si possano sentire le urla dell’uomo e quelle dei bambini che non furono salvati.

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La difesa della vita, oltraggiata dall’oste maligno, è rappresentata dalla dea Diana, protettrice delle partorienti, che incontriamo sul rosso tappeto mentre trattiene un elegante levriero, a difesa dei simboli che ella rappresenta, e mentre delicati uccelli volteggiano nel limpido cielo ad indicare i favorevoli auspici che, alfine, si possono trarre dopo l’angoscioso tumulto dei precedenti incontri.

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Ed ecco, infatti, apparire l’evanescente figura del Beato Felice da Corsano, un agostiniano che visse a cavallo tra il XV e XVI secolo. Riformatore delle regole del suo Ordine, trascorse buona parte della sua vita a Deliceto, Casa Madre della sua Riforma, dove viveva in una grotta e dove - si racconta-  si nutriva di una pagnotta di pane che un corvo ogni giorno gli portava nel suo misero ricovero.

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Ma Montecalvo è terra non solo di beati, ma anche di santi. Qui, infatti, nacque, sesto di undici figli, Domenico Pirrotti, poi San Pompilio Maria, dell’Ordine religioso delle Scuole Pie. Il santo svolse il suo apostolato in tutta Italia ed in particolare in Abruzzo, tanto da meritare il titolo di Apostolo degli Abruzzi. Gli straordinari meriti umani e religiosi gli valsero gli odi, le gelosie e le invidie di quanti, religiosi e non, si vedevano scavalcati nella gerarchia degli affetti e della stima del popolo e delle autorità. Per questi motivi, nel 1759, fu esiliato dal regno di Napoli ove rientrò nel 1765 pienamente riabilitato, diretto a Campi Salentina. L’anno dopo si spense nella cittadina pugliese ove, in un maestoso santuario a lui dedicato, riposa oggi il suo corpo. All’illustre concittadino Montecalvo ha dedicato una chiesa, sorta sulle macerie del Palazzo Pirrotti, semidistrutto dal terremoto del 1930, e il Museo della Religiosità montecalvese e della memoria pompiliana, che, fondato nel 1898, è uno dei più antichi Musei religiosi della Campania. Il Museo espone oltre 450 oggetti sacri, sia provenienti dalle chiese di Montecalvo sia appartenenti al Santo. Tra gli oggetti più preziosi, i distici latini che Papa Leone XIII dedicò a Pompilio Maria Pirrotti, in occasione del viaggio a Montecalvo nel 1839, durante il processo di beatificazione, il confessionale settecentesco in legno di ciliegio, utilizzato da san Pompilio per le confessioni, l’altare in legno dipinto di Palazzo Pirrotti.  

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A dare la spinta alla realizzazione del Museo fu probabilmente il ritrovamento nel 2001 di alcune statue in legno, murate in un sottoscala del palazzo Pirrotti, rappresentanti San Lorenzo martire, la Madonna Addolorata e la Madonna dell’Abbondanza. Fu soprattutto quest’ultimo simulacro ad attirare la meravigliata attenzione dei restauratori, i quali poterono constatare la presenza, nella pupilla vitrea dell’occhio destro, dell’immagine tridimensionale di un teschio che la scienza proclamò “non riconducibile ad opera umana”. L’immagine del teschio, tra l’altro, rimanderebbe allo strettissimo legame che univa San Pompilio alle anime dei defunti, ravvisabile negli affettuosi dialoghi che egli teneva con le anime del Purgatorio nonché nel gesto premuroso di lasciare, nelle bocche dei teschi, pezzetti di pane e tarallucci, che, poi, non venivano più rinvenuti.

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Ma ormai siamo quasi giunti al termine del nostro viaggio, che vede l’incontro con le umbratili figure dei Crociati. Nel XII secolo partirono da Montecalvo circa sessanta armati che parteciparono alla crociata indetta da Re Guglielmo il Buono. Al ritorno dalla Terra Santa i superstiti Cavalieri di Malta diedero vita ad un ospedale, con annesso monastero, dedicato a Santa Caterina d'Alessandria, vergine e martire, il cui culto venne portato in Occidente proprio dai Crociati. Il complesso rappresentava anche un importante luogo di sosta per i pellegrini che, nel Medioevo, percorrevano la Via Traiana, ossia la via che l’imperatore Traiano, nel II secolo d.C., riprendendo più antichi tracciati viari, fece costruire per collegare Benevento a Brindisi più celermente rispetto alla più antica Via Appia, che portava ugualmente a Brindisi, ma passando da Aeclanum. Dell’antica strada romana restano tracce cospicue, sul fiume Miscano, nel ponte di Santo Spirito (detto anche ponte del Diavolo, poiché una leggenda narrava che fosse stato eretto e distrutto magicamente in una sola notte dal Diavolo).

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Ad attenderci, all’opposto lembo del tappeto volante, è Aladino, che osserva attentamente una sékoma, antichissima unità di misura dei liquidi (probabilmente risalente al III-II secolo a.C.) e unica nel suo genere nell’Italia continentale: per trovarne di simili bisognerebbe recarsi a Selinunte o in Grecia. È probabile che la sékoma sia stata portata a Montecalvo quando i Siracusani di Gerone (che, nel 424 a.C. dalla Magna Grecia andarono in aiuto di Cuma, fondata, prima di Napoli, dai Calcidesi d’Eubea nell’VIII secolo a. C.), passando per i nostri luoghi, potrebbero aver fondato una colonia stanziale, con usi e costumi propri.  

Sicché la fine del viaggio altro non è che il raggiungimento e la conquista di una caleidoscopica pluralità di mondi, sospesi in un Tempo senza Spazio e in uno Spazio senza Tempo, tra Mito e Storia, streghe e santi, leggenda e verità, Cielo e Terra, Occidente e Oriente.

In una delle più ammalianti terre della Terra di Mezzo.    

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