MAGICA IRPINIA: LIONI

Dei tanti deliziosi borghi disseminati nella Terra di Mezzo, quali distesi nelle valli, quali abbarbicati lungo i fianchi dei rilievi o a signoreggiare dalle cime dei monti, taluni hanno modificato il loro antico volto agricolo e artigianale per trasformarsi in attivi centri commerciali. È il caso di Lioni, cui lo spirito di iniziativa, l’industria, le capacità imprenditoriali degli abitanti hanno donato nuova fisionomia, sì da farne sicuramente una delle realtà economicamente più rilevanti dell’Alta Irpinia.

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Eppure la nuova veste non ha snaturato l’antica: il nuovo corso impresso alla vita del borgo, soprattutto in seguito al terremoto dell’Ottanta, non ha reciso i legami con la storia passata e con le proprie radici. Alla scoperta delle quali è necessario partire dal Monte Oppido, una cima di poco più di 1000 metri, posta sul versante settentrionale dei Monti Picentini e che già nel toponimo rivela la sua funzione di luogo fortificato (oppidum, in latino, equivale, per l’appunto, a cittadella fortificata). È da qui che parte la storia di Lioni, quando, per la pressione sempre più incalzante dei Romani sui territori abitati dalle tribù sannite, a partire dalla metà del IV secolo a.C. (e, dunque, quando scoppiano le guerre sannitiche), nel paesaggio dell’Appennino meridionale, compare un nuovo elemento architettonico: la fortezza montana. L’insediamento, come rivelano le vestigia del Monte Oppido, era protetto da un doppio perimetro fortificato, che integrava il sistema difensivo naturale dato dalla difficilissima accessibilità del luogo, caratterizzata da notevoli salti di quota a strapiombo. La cinta muraria esterna, alla quota di 950-960 metri, si sviluppava per circa due chilometri sì da essere sufficientemente ampia da contenere sia le abitazioni sia i recinti per le greggi e i terreni per i pascoli; la cinta fortificata interna, che viaggiava alla quota di 1.020-1.025 metri, era costituita da un muro interamente artificiale e formava quella che si potrebbe chiamare l’arce.

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Con la conquista romana l’insediamento sannita fu abbandonato e il monte frequentato, al più, da pastori nel periodo estivo. Della presenza romana restano importanti tracce. Innanzitutto il Cippo graccano, rinvenuto in contrada Civita nel 1986. Il cippo non è altro che una pietra di confine che, nello specifico, testimonia l’estensione anche al territorio dell’alto Ofanto della riforma agraria promossa dai Gracchi nel I secolo a.C. In base ad essa l’agro pubblico fu redistribuito tra i privati con delle limitazioni che consentissero allo Stato di assegnarne delle quote ai cittadini romani meno abbienti. Le terre furono, quindi, suddivise in lotti quadrati secondo un reticolo regolare di strade, che, intersecandosi ad angolo retto, facevano anche da confine tra lotti contigui. Le strade venivano numerate a partire da due assi centrali: il decumanus, con direzione Est-Ovest, e il cardo, con direzione Nord-Sud. All’interno di tale reticolo, ad intervalli regolari, venivano collocati i cippi terminali, che, sulla sommità, riportavano il numero del cardine del decumano di riferimento, fornendo, così, esatte coordinate topografiche che consentissero di individuare precisamente un lotto tra innumerevoli lotti tutti uguali tra loro. Il cippo rinvenuto a Lioni può essere sicuramente datato tra il 131 e il 121 a.C., poiché esso reca una scritta in cui è citato Caio Gracco, figlio di Tiberio della famiglia Sempronia, che sappiamo aver fatto parte delle commissioni agrarie, appunto, fra il 131 e al 121 a.C.

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Ma sicuramente la testimonianza che più di ogni altra custodisce la memoria storica del borgo è il maestoso leone in pietra, posizionato a guardia del Municipio, dalla regalità ancora superba, seppur segnata dal trascorrere del tempo. È, infatti, oltremodo probabile che il toponimo del paese derivi proprio da tale statua. Anzi, un tempo le statue dovevano essere due: pare che il leone gemello -come riportato nella Storia di Lioni di Roccopietro Colantuono- sia andato distrutto durante il terremoto del 1732. La scultura, propria dell’arte funeraria romana, molto verosimilmente doveva essere a corredo di un sontuoso monumento funebre, posizionata, insieme con il suo gemello, all’ingresso della tomba, a rammentare, con la sua imponenza, la dignità dell’estinto.

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A partire dal V secolo d.C., con la caduta della potenza romana, venne meno anche la possibilità di garantire la sicurezza del territorio, sicché le popolazioni di contadini e di pastori abbandonarono le valli, creando villaggi d’altura (di cui sono figli molti dei borghi irpini) e ripopolando antichi siti. Il monte Oppido si riappropriava, così, della sua primitiva funzione di luogo fortificato, di cui pare essere testimonianza il ritrovamento delle fondazioni di un edificio di notevoli dimensioni, presumibilmente un castello. Tuttavia, tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, Oppido fu interessato da una nuova emorragia migratoria perché i feudatari di Sant’Angelo dei Lombardi offrirono una serie di agevolazioni (riduzione delle tasse -almeno per i primi anni-, godimento di una serie di franchigie, assegnazione di un lotto per costruirvi la casa e, a volte, anche di un pezzo di terra da coltivare in proprio) a chi fosse andato a coltivare le terre sulla riva sinistra dell’Ofanto (che cadeva sotto la giurisdizione di Sant’Angelo). Iniziative come quella del feudo di Sant’Angelo di solito venivano promosse dai signori stessi o perché un aumento del numero dei coloni sul proprio feudo fruttava loro maggiori entrate sotto forma di censi, canoni, tributi o perché il popolamento di un’area scarsamente abitata serviva a controllare meglio il territorio, per esempio garantendo la sicurezza di una strada, sorvegliando un confine, difendendo una regione dai briganti. Sta di fatto che Oppido cominciò a sprofondare in una crisi irreversibile, mentre l’insediamento sull’altra sponda del fiume si consolidava e si ampliava, tanto che nel primo decennio del XIV secolo Lioni aveva già una sua parrocchia che versava le decime alla Santa Sede.

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L’ unica testimonianza dell’epoca della fondazione del paese è, oggi, il campanile della chiesa di Santa Maria dell’Assunta, anche detta Chiesa Madre (la cella campanaria è stata ricostruita e, probabilmente, modificata verso la metà del Settecento). La torre, che faceva corpo con la chiesa, non era stata progettata solo per accogliere le campane, ma anche per servire, all’occorrenza, come opera di difesa (lo conferma la presenza delle feritoie nei muri). Infatti, quando non c’era un castello a proteggere il villaggio, in caso di attacco, le donne e i bambini si radunavano in chiesa, confidando nella sacralità del luogo e nella solidità dell’edificio. La funzione difensiva della torre campanaria di Lioni è confermata non solo dalla presenza delle feritoie, ma anche dalla struttura, che imita quella del donjon, la caratteristica torre di difesa introdotta in Italia dai Normanni. Il donjon   costituiva l’ultima ridotta di un sistema difensivo nel caso in cui gli attaccanti fossero riusciti a superare le barriere esterne.  Consisteva in un robusto edificio a pianta circolare o quadrata, sviluppato su tre o quattro livelli: nelle fondazioni era ricavata una cisterna, che veniva alimentata con acqua piovana; il pianoterra, privo di aperture verso l’esterno, era adibito a magazzino per le provviste e le armi; i piani superiori -ai quali si accedeva mediante un ponte levatoio o una scala in legno che poteva essere ritirata dall’alto- erano attrezzati in modo da permettere ad un certo numero di persone di resistere per qualche tempo, in attesa dei rinforzi.

Il campanile, presumibilmente, fu costruito verso la fine del Duecento o, al più tardi, agli inizi del Trecento, cioè proprio nel periodo in cui il casale dei Leoni vedeva aumentare la sua consistenza demografica per via della fuga dei contadini da Oppido. A confermarlo sarebbero le feritoie, che, per i bordi in pietra di taglio e la parte inferiore ad occhiello sagomato, sono tipiche dell’architettura militare angioina nell’ultimo trentennio del XIII secolo.

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Siffatti luoghi della memoria, che consentono e sostengono il riconoscimento dell’identità comunitaria, assumono una valenza ancor più pregnante dinanzi ad eventi sconvolgenti come il terremoto che segnò le terre dell’Alta Irpinia nel 1980. Il recupero amorevole di quegli oggetti e dei luoghi da quegli oggetti abitati, cari alla comunità tutta e attraverso i quali tutta la comunità dà conferma alla propria identità collettiva, è servito a non recidere i legami con il passato, a non disperdersi nell’anonimato, a non brancolare nel buio e nel vuoto dell’oblio.

Affinché anche il dolore possa essere tollerato e acquistare un senso. Nel nome di una comune appartenenza e di una fraternità condivisa.

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