MAGICA IRPINIA: AVELLA

Ogni borgo della nostra bella Irpinia possiede un fascino suo proprio, che ne fa una gemma preziosa e rara, ad accrescere la magia di una terra che punteggia il suo verde manto di inestimabili diademi luminosi. Gioielli che, sotto il profilo culturale, artistico, naturalistico, finanche eno-gastronomico, nulla hanno da invidiare ad altri borghi d’Italia.

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È il caso di Avella, scrigno, a sua volta, di tesori impareggiabili, creati dall’abile mano dell’uomo e dalla generosità sapiente della Natura. E proprio la straordinaria prodigalità della Natura ha consentito la presenza dell’uomo in questi luoghi sin dal Paleolitico. Tanto che lo stesso toponimo è intimamente connesso al frutto più pregiato tra quelli concessi in dono a queste terre. La nux Abellana, che ha reso Avella famosa nel mondo soprattutto nella sua varietà nota come Mortarella (dal latino mortarium, la ciotola usata per schiacciare e macinare sostanze con l’ausilio di un pestello) era già apprezzata dagli antichi Romani: Virgilio, Silio Italico, Strabone, Tito Livio, Plinio decantarono, tra i prodotti della civitas, per l’appunto, le nocciole.

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Un’altra ipotesi, più poetica ma sicuramente meno attendibile, vuole che il toponimo sia stato attribuito a questi luoghi da un gruppo di Calcidesi, che, attraversate le gole di Monteforte, rimasero talmente colpiti dall’amenità del posto, dalle ondulazioni della campagna, dall’ubertosità delle terre da battezzare l’intero territorio con il nome di Abel (cioè “campo erboso adatto alla pastorizia”), ben presto trasformato in Abella per ridurre l’asprezza della consonante finale.

Comunque sia, la fertile pianura fu abitata inizialmente dagli Osci, cui subentrarono gli Etruschi e, nel V secolo a.C., i Sanniti. Sconfitti i Sanniti dai Romani, dal 399 a.C. Abella entrò nell’area di influenza romana quale civitas foederata. A testimoniare il passaggio di popoli e dominazioni è una ricchissima varietà di reperti, in mostra all’Antiquarium del borgo: coppe a due anse, askoi, anfore con collo a clessidra, brocche, vasi di bucchero, coppe in impasto a superficie bruna-rossastra con decorazione impressa a rotella, fibule e cinturoni con ganci ornati da palmette, corredi funebri rammentano al visitatore la Bellezza che, fin dall’antichità, ha soggiornato in questi territori. Su tutti si segnalano due importanti iscrizioni in alfabeto osco, che, datate tra la seconda metà del II secolo e gli inizi del I secolo a.C., riportano un indiretto riferimento al celeberrimo Cippus Abellanus. Il Cippo abellano, datato al 150 a.C. circa, è un documento epigrafico di straordinaria importanza sia dal punto di vista linguistico, rappresentando uno dei più lunghi e complessi testi in lingua osca che si conoscano, sia per i riferimenti storici e giuridico-amministrativi in esso contenuti. Il Cippo, rinvenuto nel 1745 ad Avella e ridotto da sessant’anni (cioè da quando era stato rinvenuto tra i ruderi del Castello) “a servir di soglia di porton di una casa”, era, in epoca romana, probabilmente infisso nel suolo in un’area di pertinenza pubblica (che poteva essere il santuario di Ercole -al quale l’epigrafe fa riferimento- o il foro di Avella) e definiva con esattezza i confini territoriali tra Osci e Nolani, risolvendo, alfine, l’acerrima contesa tra le due popolazioni circa dei terreni in mezzo ai quali era un comune santuario di Eracle.

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Fu, tuttavia, durante il periodo romano che Avella visse uno straordinario sviluppo urbano ed edilizio, la cui testimonianza più imponente è sicuramente l’Anfiteatro. Costruito in opus reticolatum nel I sec. a.C., l’edificio, rapportabile, per dimensioni, all’anfiteatro di Pompei, era in grado di contenere fino a 5.000 spettatori. Tra i quali mi mescolo e, attraversati i vomitoria, prendo posto su uno dei sedili in tufo della cavea. Ed ecco che, entrate, attraverso la porta triumphalis, le personalità di rango, i ludi gladiatorii hanno inizio. L’arena (adibita anche a venationes e, talora, a naumachiae) risuona del clangore delle armi e delle urla della folla, eccitata alla vista del sangue che la sabbia, che riempie lo spazio ellittico dell’arena, provvede ad assorbire. Il campione di Avella uccide i suoi avversari e, mentre i corpi degli sconfitti vengono  trascinati via attraverso la porta libitinensis, il vincitore, tra applausi e ovazioni, attraverso la porta triumphalis, abbandona l’arena.

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Terminato lo spettacolo, mi dirigo verso l’area occupata dalla Necropoli: quattro monumentali mausolei funerari, risalenti all’epoca tardo-repubblicana e alla prima età imperiale, simboleggiano, con la loro maestosità, il potere delle antiche famiglie patrizie di Avella. Alla imponenza della struttura si contrappongono le ridotte dimensioni della porta principale: quasi grembo materno pronto a ricevere il corpo del defunto, che la Madre Terra riporterà a nuova vita dopo la morte.

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L’arancio del Sole al tramonto, venato da sfumature purpuree, inonda lo spazio e colora di caldi riflessi il Castello, che, da questo luogo di sepoltura, si intravede sulla cima della collina. Eretto nel VII secolo dai Longobardi sulla sommità della collina da cui dominare l’intero territorio circostante e dedicato all’arcangelo Michele, oggetto di particolare venerazione da parte dei Longobardi dopo la loro conversione al Cristianesimo, il Castello rappresenta una mirabile sintesi di tutte le tecniche costruttive militari adottate tra il VII e il XIV secolo d.C. in Campania. E, infatti, la prima cinta di mura, caratterizzata da dieci semi-torri, è di epoca longobarda; la seconda cinta, con una porta carraia e nove torri, appartiene al periodo normanno; la torre-mastio, alta quasi 20 metri, è di epoca angioina. Ma la suggestione del maniero risiede, soprattutto, nelle numerose leggende a cui esso fa da sfondo.

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Così, una leggenda vuole che la fortezza, essendo stata edificata sui resti di un tempio dedicato all’invincibile Ercole e che essendo, per ciò, essa stessa inespugnabile, fosse una delle dimore di Belzebù.

Un’altra leggenda narra che il Castello sia stato edificato da Cofrano, figlio del re di Persia, che, giunto in questi luoghi con la bella popolana Bersaglia in fuga dalle ire del padre che osteggiava un simile amore, decise di fermarsi ad Avella attratto dall’amenità del posto. E, anche se la scomparsa prematura della ragazza separò i due giovani, tuttavia la forza del loro amore fu tale da vincere persino la morte, sicché i due amanti si ritrovarono per sempre uniti nell’aldilà.

Un’altra leggenda, ancora (anche sulla scorta dell’assonanza che lega il toponimo alla leggendaria isola di Avalon, legata, a sua volta, al mito di re Artù), vuole che, ai piedi del Castello, Lancillotto e Ginevra avessero sepolto il corpo del mitico condottiero britannico.  

Storia e leggenda, arte e natura, passato e presente si intrecciano in questo splendido borgo, che fa della Bellezza il suo tratto distintivo.

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Valle del Clanio

Chiesa_san_PietrojpgChiesa di San Pietro


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Chiesa di San Giovanni

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Palazzo Ducale

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Corso Vittorio Emanuele

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Convento Francescano della S.S. Annunziata

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Piazza Convento